gianvito rizzo feudi di guagnano

La potatura dei vigneti segna il passaggio dalla vecchia alla nuova annata, il momento di congiunzione tra antico e moderno. Cambiano le tecniche, si affinano e si differenziano i periodi, si imposta la nuova stagione che, dalla vigna porta alla tavola. Così è stato, così è e così sarà, nel calendario contadino che, non è certo un caso, in questo periodo celebra il passaggio tra vecchio e nuovo, anche con riti e rituali, più o meno grandi, antichi e moderni, persi e ritrovati, che accendono momenti di festa attorno alla potatura delle vigne, in vari territori. Nel Nord Salento, in particolare, dove “focare” e “fòcareddre”, sembrano più che mai celebrare il periodo, la potatura e il vino, oggi come un secolo fa. Oggi che, a livello nazionale, si apre un dibattito(impensabile fino a qualche tempo fa) su “Negroamaro classico” e “Negroamaro moderno”.

Si potrebbe parafrasare il ritornello di Giorgio Gaber, “ma cos’è la destra, cos’è la sinistra”, con “cos’è il Negroamaro classico, cos è il Negroamaro modemo”. Sono declinazioni diverse dello stesso vitigno? E ancora, quelli che oggi si definiscono Negroamari classici, 20 0 30 anni fa erano classificati come Negroamaro moderni, rispetto a quelli prodotti 20 anni prima?

Caravaggio, che è vissuto tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600, era considerato un pittore straordinariamente moderno rispetto ai suoi contemporanei. Oggi, pur semplicisticamente, è definito un pittore classico.

Mai, come in questo caso, “incollare un’etichetta” a uno stile enologico e produttivo risulta essere non solo arduo, ma soprattutto fuorviante. Questo perché, affidandosi ai tre sensi (vista, olfatto, gusto) rivelatori della qualità di un vino, la componente soggettiva domina, purtroppo, incontrastata.

È innegabile però, che esistano stili e modi diversi di produrre un determinato vino, nell’ambito di una denominazione. Si capisce guardando nel calice, osservandone il colore, i profumi; gustandolo ed “etichettandolo”, in pratica, come moderno o classico.

Il suggerimento, da produttore, è seguire un percorso storico-geografico per comprendere appieno l’origine di ciò che oggi si definisce “Negroamaro classico”.

Una piccola scoperta, in merito alla questione, risale al 1956, emersa da una ricerca sui “Vitigni da vinosalentini”, opera dell’ampelografo Carmine Panzera. Un libricino che contiene molte e interessanti informazioni di natura climatologica, alcuni cenni geologico-pedogenetici e altri sui sistemi di allevamento dei “vitigni nostrali da vino”. Infine, il capitolo sulle zone di produzione dei vini rossi salentini, senza specificazione del vitigno, contiene una carta della provincia di Lecce divisa “verticalmente” in “zona dei vini da taglio” (comprendente le sottozone di Salice, Gallipoli, Ugento) e “zona dei vini da pasto” (con le sottozone di Novoli, Galatina e Casarano). Non esistevano ancora le Doc e le Igt e quindi, per Negroamaro, si intendeva solo il vitigno e non il vino che, merceologicamente, era identificato ancora come “da taglio” o “da pasto”. Questo accadeva appena 60 anni fa.

Negli anni ’70 e ’80 poi, alcune sottozone sono scomparse e altre potremmo dire naturalmente, sia per la qualità dei vini prodotti, sia peri terreni particolarmente vocati e per l’ingegno e la maestria dei produttori e degli enologi, sono riuscite a emergere a imporsi cosi come oggi le conosciamo. Alcune di esse, per esempio, sono ricomprese nei comuni che oggi formano la Doc del Salice Salentino istituita nel 1976, del Copertino (1977), del Leverano (1980) e dello Squinzano (1976).

E’ degli stessi anni la nascita del Patriglione di Taurino (’75), più tardi del Graticciaia (1986) di Agricole Vallone e di tanfi altri fino al Nero di Velluto di Velluto di Feudi di Guagnano (2002). Severino Garofano prima, e tanti altri validi eno­logi in seguito, hanno immaginato e realizzato, assieme ai produttori, dei grandi vini col Negroamaro. Questi vini sono oggi “etichettati” come Negroamari classici.

Il Negroamaro classico o moderno Nei calici il responso

 

Va specificato però il senso. E’ molto facile identificare la grafica di un’etichetta di una bottiglia, secondo lo schema iconografico del classico o del moderno. Ma un vino?  Come si fa a distinguerne uno classico da uno moderno?

Parlando di Negroamaro, si dovrebbero cercare soprat­tutto le sue origini, la sua provenienza. Capire dove nasce, dove è insediata la vigna, conoscere il suolo, la sua età, se insiste nella zona “classica” del Salice Salentino, se le tec­niche di vinificazione e affinamento seguono l’originale “disciplinare interno” della cantina, se la matrice gusto-olfattiva, pur nella inevitabile innovazione, riporti a quel vino conosciuto e degustato negli anni precedenti. Si parla di “inevitabile innovazione” perché si potrebbe sfidare chiunque a non riconoscere nel cosiddetto “Negroamaro classico” una diversa combinazione di specifiche componenti produttive, quali la vinificazione e l’affinamento.

Tutto ciò porta ad affermare, di conseguenza, che quando si discute di  Negroamaro Classico o Moderno occorrerebbe aggiungere la specifica “nativo”.

Quindi “Classico Nativo” ossia concepito, sin dalla sua prima uscita con caratteristiche che rimandano alla tradizione e al rispetto del territorio di provenienza; oppure “Moderno Nativo”, concepito invece in una sfera di più attuale vinificazione che predilige soprattutto il fruttato allo spaziato. La profondità del colore alla sua trasparenza, la morbidezza complessiva all’austero gusto della mandorla amara.

In conclusione, classico o moderno che sia, il Negroa­maro rappresenta oggi, su tutti i mercati nazionali e internazionali, l’attualità di un rinascimento avviato appena mezzo secolo fa.

Ma classico o moderno che sia, il miglior Negroamaro è quello che nel calice serba scritto il nome del suo affezionato bevitore.

di Gianvito Rizzo

Per gentile concessione di QuiSalento-Gennaio2019

 

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